28 ANNI DOPO - DI DANNY BOYLE
23 anni dopo l’uscita del primo film. Boyle a Garland tornano a lavorare insieme per quello che dovrebbe-potrebbe-sarà il primo capitolo di una nuova trilogia.
Nel 2002 (13 giugno 2003 in Italia), Danny Boyle e Alex Garland declinano a modo loro il tema zombie portando nelle sale 28 giorni dopo. Cillian Murphy è il protagonista di una pellicola horror fantascientifica nella quale un virus mutato della rabbia trasforma in zombie corridori (due anni prima del Dawn of The Dead di Zack Snyder, gli zombie di Boyle sono già centometristi) praticamente l’intera popolazione del Regno Unito. 28 giorni dopo si conclude senza possibilità apparente di appello perché 28 giorni non è solo il titolo del film ma è anche il tempo massimo oltre il quale gli infetti muoiono di inedia, il corpo distrutto dal virus. Pellicola molto riuscita e molto apprezzata per un insieme di fattori: regia, personaggi, cattiveria e iperboli sociali. Avremmo potuto fermarci qui, no? No.
Nel 2007 il regista spagnolo Juan Carlos Fresnadillo mette mano al franchise confezionando un sequel - 28 settimane dopo - che è appunto ambientato sette mesi dopo il drammatico collasso del Regno Unito sotto i colpi di scure del virus. La perfida Albione è pronta a essere ricolonizzata ma le cose non vanno per il verso giusto e una portatrice sana del virus scatena una nuova apocalisse che questa volta riesce a lasciare le coste inglesi. Il film si conclude con la certezza di un’epidemia capace, questa volta, di annientare l’intera razza umana. Pellicola decisamente più discontinua della prima ma che a me personalmente non era dispiaciuta. Tante cose buone, alcune cose meno buone ma nel complesso veniva offerto - secondo me - un discreto punto di vista iberico sulla vicenda.
E arriviamo al 2025. 23 anni dopo l’uscita del primo film. Boyle a Garland tornano a lavorare insieme per quello che dovrebbe-potrebbe-sarà il primo capitolo di una nuova trilogia. Cancellato con un colpo di spugna quanto successo in 28 settimane dopo (cito a memoria: “Il virus viene ricacciato dal continente”), eccoci di nuovo nel Regno Unito dove, su un’isola nell’isola (Lindisfarne), una comunità riesce a prosperare. Isolati dalla terra ferma, percorrono la strada che con la bassa marea unisce l'isola al continente (che continente in realtà non è) in cerca di oggetti utili alla comunità. Ma, soprattutto, percorrono la strada per iniziare i giovani. Una sorta di rito celebrato con arco e frecce, una passaggio all’età adulta che attinge ad antiche mitologie pre-industriali, figlie del mondo nel quale il Regno Unito si ritrova precipitato. Perciò ecco il viaggio del giovane Spike insieme al padre Jamie. Ecco gli imprevisti, ecco la nuova ecologia del virus che ha creato gli Alfa, super individui intelligenti, forti e capaci di procreare. Ecco, insomma, cosa è successo al Regno Unito 28 anni dopo la comparsa del virus. Ed ecco, alla fine, la vera domanda: 28 anni dopo funziona?
Primo aspetto: citazioni, commistioni, riletture, appuntamenti mancati. Boyle e Garland attingono a piene mani da un immaginario già ben consolidato. L’evoluzione zombesca era già stata affrontata da Romero nel suo Land of The Dead (2005) perciò gli infetti comunitari ci appaiono come un cliché non particolarmente interessante. Il dottor Kelson (un Ralph Fiennes che è sempre garanzia) appare come una versione sana di mente del dottor Moreau di Wells e del colonnello Kurts di Apocalypse Now. I drughi di fine pellicola strizzano l’occhio ad Arancia Meccanica aprendo bizzarre possibilità ai sequel che verranno. In generale, aleggia poi ovunque l’ombra di una Brexit nella Brexit. Perciò l’Inghilterra è isolata e pattugliata da navi europee che mantengono una quarantena virale che sembra flirtare con la quarantena economica della Brexit. La stessa isola di Lindisfarne è, a sua volta, isolata dal continente. Quindi sì, si tratta di esercizi interessanti ma sono tanti, troppi. Riferimenti poco sviluppati all’interno di un ecosistema assai didascalico.
Secondo aspetto: tecnica. Le riprese sono state fatte con un iPhone 15 Pro Max, dopato da opportune lenti. E secondo me, come sempre accade quando un registra intraprende un sentiero tecnocratico, la forma finisce con il prendere il sopravvento sulla sostanza. Niente mi toglie dalla testa che la fuga di Spike e Jamie sul sentiero quasi sepolto dall’acqua, in quella notte stellata, attraverso le porte di pietra, sia una sequenza che Boyle VOLEVA fortissimamente girare. Per suggestioni, riferimenti, estetica. Ma è una sequenza, come altre nel film, che arriva zoppicando. Forzando la trama. Stiracchiando la sostanza. Sacrificandola all’altare della forma. E questo è un difetto che secondo me infesta, virale, tutto il film.
Terzo aspetto: Kelson. Kelson è, a mio modo di vedere, l’unica cosa che funziona (quasi) in tutto e per tutto nel film. È ambiguo perché subito ci viene presentato come il classico scienziato pazzo, anche se ciò che sappiamo di lui è viziato da una crescente superstizione che anima l’isola di Lindisfarne. Poi, in realtà, veste i panni di una figura assai più complessa. Non cerca nessuna cura, Kelson. Diventa osservatore dell’ecosistema strutturato dei rabbiosi. Diventa filosofo e il suo Memento Mori è un messaggio che travalica le tante imprecisioni di scrittura del film. Kelson è ciò che l’essere umano moderno non sarà mai: capace di lasciare che le cose vadano occupandosi solo di costudire la memoria di ciò che è stato. Spike completa il suo viaggio dell’eroe solo grazie a Kelson. Non per merito di Jamie, suo padre. Non per merito della comunità di Lindisfarne che cerca un’epica fallimentare. E nemmeno per merito suo, che si aggrappa al passato tralasciando l’istante presente.
Concludendo: 28 anni dopo ha tanti, tanti problemi. Non mi metterò a dissezionare, armato di bisturi, tutte le storture di trama. Non cercherò antidoti. Non lo ha fatto Kelson che si trovava in una situazione ben più complessa, non lo farò di certo io. Ma le storture, ci sono. Le discontinuità, ci sono. La forma c’è. La sostanza, non tanto. A partire dalla forzatissima chiusura concettuale che salda malamente i primi minuti della pellicola con gli ultimi. Boyle resta una gioia per gli occhi, quello sì. Apparecchia suoni e immagini disturbanti ma, a mio modo divedere, non è abbastanza.
Mhm, peccato! Rimango comunque molto curioso, ma lo aspetto su uno dei canali a pagamento. In questi giorni ho visto (per la prima volta) gli altri due film. 28 giorni dopo è semplicemente un capolavoro dell’horror, con quella sua capacità di essere artistico con gli orrori più inquietanti, che toccano la cerchia dei cari. Il secondo film mi è piaciuto, anche se in generale meno efficace del primo. Ripeto, attendo (a questo punto senza aspettative elevate) il terzo. Grazie per la tua bella recensione.
Sai che a me tutto sommato è piaciuto? Forse partivo con aspettative così basse che mi ha sorpreso. :D
Concordo con le tue osservazioni puntuali e i difetti che hai sottolineato, il film li ha tutti.
Però dopo averlo visto mi son chiesta: nel mondo di oggi che ha passato una vera pandemia e che ha assorbito storie di zombie in tutte le salse possibili, cosa rimane ancora da raccontare e da vedere?
Non credo sia facile per un regista (non lo sarebbe per nessun autore) tirar fuori qualcosa non dico di originale ma che possa toccare qualche corda senza cadere nell’assolutamente scontato o trash.
“28 anni dopo” secondo me ribalta la prospettiva e mette in luce qual è il vero virus della Terra: l’essere umano.
L’essere umano che persevera nel suo antropocentrismo (la Terra è casa mia, posso viverci solo io, quanto mi infastidisce resto va sterminato – al di là della normale difesa per la sopravvivenza).
L’essere umano che subitamente torna a uno stato primordiale di brama sanguinaria di uccisione, di egoismo, di prevaricazione e godimento nella caccia agli infetti.
Questo aspetto -per carità, non nuovo – l’ho trovato comunque interessante.